Il fund raising

Il fund raising così come è stato descritto e come già accennato, non può essere un’attività da improvvisare o legata ad opportunità casuali, al contrario, dovrà essere il frutto di una strategia attentamente pianificata e condivisa con i vertici dell’organizzazione. Ciò che la maggior parte delle organizzazioni ha sempre fatto in termini di raccolta, improvvisando richieste ed iniziative deve essere sostituito con un metodo che lasci spazio all’analisi, alla pianificazione e, dopo l’azione di fund raising, alla verifica dei risultati, alla rendicontazione, alla fidelizzazione dei donatori. Occorre prendere coscienza del fatto che una corretta pianificazione del fund raising richiede un percorso costituito da una fase di progettazione e di analisi di mercato prima di partire con l’implementazione pura del piano di fund raising, cioè l’esecuzione del lavoro. Questo perché altrimenti il lavoro esecutivo rischia di incorrere in imprevisti o di perdere di vista delle possibilità che solo un attento lavoro di analisi del contesto può preventivare. Non meno importante è la fase finale della fidelizzazione dei nostri donatori e dei nostri pubblici di riferimento, attraverso delle azioni di ringraziamento all’esterno e di valutazione dei risultati all’interno della nostra organizzazione. Solo attraverso un metodo così strutturato la nostra azione di raccolta fondi non rischierà di perdere del tempo, ottimizzerà le sue potenzialità e potrà avere successo non solo nel breve periodo ma anche nel lungo periodo. Un approccio di questa natura spesso richiede il lavoro e l’impegno di una persona interamente dedicata al fund raising. La non improvvisazione rende necessario quindi un investimento in risorse umane professionali e competenti. Va precisato a questo proposito che la persona dedicata al fund raising (laddove presente) non dovrà avere la delega totale al fund raising; essa dovrà avere la capacità di pianificare attività ed iniziative e di coinvolgere l’intera organizzazione nello sviluppo delle stesse. In questo modo tutta l’organizzazione potrà divenire uno strumento di fund raising, dai vertici, ai volontari. L’attività del fundraiser nasce più di un secolo fa nei paesi anglosassoni, dove vi è la sua più ampia diffusione. Negli Stati Uniti, in Gran Bretagna la donazione è pratica comune e ampiamente diffusa, in ogni ambito, soprattutto in quello culturale che in Italia rappresenta l’ambito più ostico su cui muovere azioni di reperimento di risorse economiche sia da pubblici privati che da aziende. In Italia, l’attività di fund raising, seppur in evoluzione, è ancora vista con diffidenza per un problema di differenza culturale e di impostazione di metodo. In molti hanno cercato di replicare i successi americani in madrepatria, ma non crediamo che lo stesso metodo, seppur vincente, sia replicabile in Europa, ancor meno in Italia. Se il metodo è imposto dall’oggetto con cui ci troviamo ad operare, in questo caso il fund raising è l’obiettivo e il metodo è quello richiesto dal contesto in cui si opera. Dall’esperienza maturata emerge che il metodo neofunzionalista dell’ambiente anglosassone, che vede la sfera del non profit come compensatrice delle carenze o delle storture dei settori primari (Stato e mercato), non sia un metodo portatore di pari successo e produttività in Italia, dove per fortuna lo Stato si pone ancora la preoccupazione di contribuire al benessere della popolazione. Il livello di compensazione ed operatività statunitense è sicuramente un buon input, uno stimolo di partenza, un buon ideale motivazionale nel breve periodo, ma porta con sé due punti di debolezza rapportato alla realtà culturale italiana: da una parte l’ideale, se non sostenuto da ragioni forti, rischia di crollare alla prima delusione o alla prima stanchezza (soprattutto in un momento storico come quello contemporaneo in cui gli individui hanno sempre meno tempo libero a disposizione e sempre meno margine di guadagno), dall’altra coprirebbe un target culturale molto limitato. Al contrario, per quello che è il patrimonio storico culturale italiano, le organizzazioni non profit dovranno puntare sulla reciprocità relazionale, cercando di generare reti di relazioni con le quali il raggiungimento della mission e tutte le attività ad essa correlate all’interno dell’organizzazione, riguardano una condivisione del fare, dell’andare agli altri, della condivisione della loro vita mettendo in comune un pò della nostra. Questo metodo ha a che fare con una legge dell’esistenza che rompe la debolezza di un ideale fiacco. L’attività delle onp è strumento di valori, è potenziale di miglioramento della qualità della vita. Visto con la lente d’ingrandimento, non si tratta di una sussidiarietà privata che sostituisce o completa quella pubblica, ma si tratta di stakeholder in pole position compartecipi e attivi sostenitori (a seconda delle loro possibilità) di una causa che li riguarda personalmente. Alla luce di quanto detto, il valore aggiunto di skip consiste nella possibilità data ad organizzazioni che, in quanto appartenenti al mondo non profit, non avrebbero probabilmente mai potuto intraprendere un tale percorso di consulenza, se non con fatica o con restrizioni di risorse altrimenti indirizzate alla propria mission. Con loro è stato implementato questo metodo che riteniamo vincente nel lungo periodo. L’esperienza di skip ha loro permesso di iniziare un percorso di conoscenza di sé e di produzione di un piano di fund raising che in alcuni casi è già nella sua fase attuativa, pertanto di verifica concreta dei risultati. Nei casi in cui l’implementazione del piano non ha avuto seguito, i vantaggi del percorso sono comunque emersi, come output nella forma di una documentazione cartacea spendibile in attività di corporate fund raising e comunicazione; ma anche come coesione del gruppo operativo grazie ad un percorso di ridefinizione degli ideali e dei valori dell’organizzazione di riferimento.